Cecilia Gibellini
La fioritura rinascimentale dell’autoritratto, sia figurativo sia letterario, si traduce in una gamma molto ampia e diversificata di rappresentazioni: artisti e scrittori assumono di volta in volta attributi, connotati, in molti casi vere e proprie maschere, che consentono loro di fissare la propria identità nel presente e insieme di ripensarne l’evoluzione nel tempo; e, ancora, di inscriverla entro schemi culturali e modelli filosofico-scientifici, di assimilarsi a esempi illustri, di dare forma concreta alle proprie convinzioni ideologiche, religiose, estetiche, stilistiche.
All’interno di questo ampio spettro, un’opzione fortunata è quella dell’autoritratto comico, caricaturale, parodico1: proprio nell’epoca in cui il prestigio dell’artista viene celebrato attraverso un processo di «eroicizzazione», pittori e scrittori, e questi ultimi assai più dei primi2, scelgono di deformare la propria immagine e, attraverso il rovesciamento non solo dell’ideale di dignitas, ma anche del puro dato oggettivo, propongono un’immagine stravolta di sé e del mondo. I procedimenti ravvisabili nelle diverse forme di scritture autobiografiche – ciascuna, beninteso, in dialogo con norme e modelli architestuali e stilistici propri – sono vari: c’è il compiacimento ludico della rappresentazione caricaturale di corpi malati e sfigurati, proprio della linea che dai sonetti del Burchiello (XXX, Labbra scoppiate e risa di bertuccia; LXXVI, Lievitomi in su l’asse come il pane; LXXXV, Son diventato in questa malattia; CLXXXVII, I’ son sì magro che quasi traluco; CCXXI, Ser Domenico Fava, del buon vino) conduce a quelli di Bernardo Bellincioni (XII, Signor, tanto ho cantato il Miserere; e CLXXV, Se fei, Madonna, l’altro dì peccato) e di Antonio Cammelli detto il Pistoia (II, Più di cent’anni imaginò Natura), sviluppando anche il motivo contiguo delle vesti lacerate (Burchiello, LXII, Mille salute a Monna Antonia e Nanni; Bellincioni, LXXVI, Non fu lattuga mai sì diradata; CLXXII, I’ porto in dosso un certo stran mantello; CLXXIII, Memento mei, el c’è el tesauriere; Cammelli, CCXCV, L’habito che ciascun sì extremo vede; e la serie dei sonetti sulle calze rotte di Donato Bramante, XVIII-XXII)3; c’è il filone bernesco che, ribaltando parodicamente l’autoritratto celebrativo, estende l’azione deformante dal corpo dell’autore alle sue espansioni, la «mala» cavalcatura e la casa in sfacelo, rovesciamento dell’interno decoroso (Francesco Berni, capitolo XX a Gerolamo Fracastoro; sonetti XLVII, Signore, io ho trovato una badia e LXV, La casa che Melampo in profezia)4; c’è la consapevole assunzione di una maschera, apertamente dichiarata o più sottilmente allusa – si pensi alla fortuna del modello del ‘Socrate Sileno’, o della coppia Eraclito piangente-Democrito ridente5. Agiscono in misura consistente modelli teorico-filosofici e schemi culturali codificati attraverso i secoli, come la classificazione delle età dell’uomo (tre o quattro, a seconda delle tradizioni), quando l’autoritratto evolve e si scala nel tempo, o la teoria di origine ippocratico-galenica dei quattro umori o temperamenti, che, com’è noto, a partire dal fortunato Problema pseudo-aristotelico XXX 1, vede affermarsi la melanconia come condizione propria dell’uomo di genio. E precipuamente al temperamento melanconico riconducono i propri autoritratti autori come Torquato Tasso6 e artisti-scrittori come Michelangelo e Pontormo; ma si possono ricordare almeno gli autoritratti come collerici di Francesco Berni e di Benvenuto Cellini7, o il passo dell’autobiografia di Gerolamo Cardano in cui l’autore, secondo un topos che persisterà a lungo all’interno del genere8, ripercorre la sequenza dei temperamenti che si sono susseguiti nel corso della sua vita, ricalcando in buona parte la successione che gli ippocratici ritenevano fisiologica – il sanguigno nell’infanzia, il collerico nella giovinezza, il melanconico nella maturità e il flemmatico nella vecchiaia:
L’età cambia i costumi, l’aspetto esteriore, il carattere e le abitudini: da piccolo ero, come seppi dai miei, grasso e rubicondo [sanguigno]; da fanciullo macilento, col viso lungo, pallido e rossiccio, crescevo molto, tanto che a sedici anni avevo finito di crescere ed ero già alto come ora, di temperamento malinconico. Da giovane ero rosso di capelli, di corporatura regolare, un po’ irascibile, allegro, amante dei piaceri e soprattutto della musica [collerico]. […] Di quel periodo di ventisette anni [dai quarantatré ai settanta], sette ne passai a godere la vita dedicandomi alla musica e ad altri piaceri, ai dadi e soprattutto alla pesca [flemmatico]9.
Sono spinte che agiscono, in misura diversa, nei due autoritratti parodici che qui si prendono in esame, di Michelangelo Buonarroti e di Teofilo Folengo: il primo investe di carica deformante sia i suoi autoritratti ‘in figura’, dipinti e scolpiti, sia l’immagine di sé come artista consegnata a due dei suoi componimenti poetici più famosi; il secondo scompone la propria immagine, moltiplicandola all’interno delle sue opere nei personaggi-alter ego che tenta poi di ricomporre nel Caos del Triperuno.
Com’è noto, Michelangelo, coerentemente con la sua dichiarata avversione per il genere del ritratto10, non ha lasciato un vero e proprio autoritratto figurativo, cioè un’opera in cui egli sia il soggetto esclusivo della rappresentazione; gli studiosi hanno però individuato i tratti del suo volto in alcuni personaggi secondari delle sue opere, pittoriche e scultoree, secondo il procedimento dell’autoritratto ‘in figura’. L’autoritratto di Michelangelo sarebbe dunque celato nella testa mozzata di Oloferne, nel pennacchio della Sistina che contiene l’episodio biblico del libro di Giuditta; o nel mascherone posto nella zona inferiore della Notte, nella Sacrestia nuova di San Lorenzo; o, ancora, nella pelle penzolante tenuta in mano da san Bartolomeo nel Giudizio Universale11. Nel primo caso l’artista si rappresenterebbe, significativamente, come un vinto; nel secondo alluderebbe alla sua appartenenza al «tempo bruno» della notte, dichiarata anche nelle Rime, e dunque all’umor nero malinconico12; nel terzo, la forte spinta grottesca che investe il suo volto e il suo corpo, ridotto a una “scorza” deforme e sgradevole, sarebbe riconducibile a quel modello del Socrate sileno, la cui doppia natura risiede nel contrasto tra bruttezza esteriore e virtù interiore, che, dalla lettera di Giovanni Pico a Ermolao Barbaro e attraverso il celebre adagio erasmiano Sileni Alcibiadis, attraversa tutto il Rinascimento, fino alla Cena de le ceneri di Giordano Bruno e al prologo del Gargantua di Rabelais; modello socratico alla cui luce può essere letto anche il ritratto di Michelangelo consegnato a quella Vita dell’allievo Ascanio Condivi che, secondo gli studiosi, può considerarsi come una pseudo-autobiografia13.
Un’immagine distorta è quella che ci consegna il famoso sonetto caudato a Giovanni da Pistoia, I’ ho già fatto un gozzo in questo stento, nel quale Michelangelo descrive lo stravolgimento del suo corpo provocato dall’impresa di affrescare la volta della Sistina nell’innaturale posizione dal sotto in su. La stessa posizione è rapidamente fermata nello schizzo che accompagna l’autografo, in cui Michelangelo ritrae se stesso nell’atto di dipingere il Padre Eterno nella Creazione del sole e della luna: disegno che va inteso come una sintetica illustrazione del contenuto del testo poetico più che come un autoritratto realistico o una descrizione caricaturale14. In questo caso, dunque, nel quale immagine e parola coesistono affiancate, la forza deformante si sposta tutta dalla prima alla seconda. A Giovanni da Pistoia – il quale a sua volta indirizza al Buonarroti sonetti auto-caricaturali15 – Michelangelo elenca le conseguenze fisiche, e infine anche psichiche e morali, dell’opera straordinaria in cui, suo malgrado, è stato impegnato da papa Giulio II16:
I’ ho già fatto un gozzo in questo stento,
come fa l’acqua a’ gatti in Lombardia
o ver d’altro paese che si sia,
c’a forza ’l ventre appicca sotto ’l mento.
La barba al cielo, e la memoria sento
in sullo scrigno, e ’l petto fo d’arpia,
e ’l pennel sopra ’l viso tuttavia
mel fa, gocciando, un ricco pavimento.
E lombi entrati mi son nella peccia
e fo del cul per contrapeso groppa, 10
e’ passi senza gli occhi muovo invano.
Dinanzi mi s’allunga la corteccia
e per piegarsi adietro si ragroppa,
e tendomi com’arco sorïano.
Però fallace e strano 15
Surge il iudizio che la mente porta,
ché mal si tra’ per cerbottana torta.
La mia pittura morta
difendi orma’, Giovanni, e ’l mio onore,
non sendo in loco bon, né io pittore. 20
Come hanno sottolineato Antonio Corsaro e Giorgio Masi, il sonetto va ricondotto al codice comico della tradizione burchiellesca, di cui accoglie metro, stile, lessico, e anche il procedimento di parcellizzazione del corpo, presentato come un insieme disorganico di elementi scomponibili: il gozzo, la nuca che sembra toccare la gobba, il petto incurvato come quello delle arpie, il volto trasformato in un pavimento policromo per il gocciolare del pennello, i lombi che entrano nella pancia, la pelle che da una parte si tende e dall’altra si raggrinzisce… Convincente in particolare il richiamo al sonetto LXXXV del Burchiello, con l’analoga dislocazione stravolta delle parti del corpo (vv. 4-5: «Sento cadermi andando per la via / le polpe drieto giù nelle calcagne»), e a un sonetto di Antonio Cammelli, autore che Michelangelo poté conoscere17 (II, vv. 9-14: «Il naso è con la punta al mento accosto, / la faccia è dalla notte colorita, / il petto fu, dove le spalle, posto. // Da la centura in giù non son dua dita: l’un piè guarda settembre, e l’altro agosto, vò dritto come va in arboro vita»)18; cui si intreccia la memoria delle descrizioni dei dannati danteschi, specie gli indovini («Mira c’ha fatto petto de le spalle», Inf. XX 37) e il falsario maestro Adamo («l’acqua marcia / che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!», Inf. XXX 122-123).
Nella coda, il passaggio dalla dimensione corporea a quella mentale del «iudizio» non si polarizza nel contrasto tra esterno e interno, cioè tra “contenitore” deforme e “contenuto” nobile, proprio del modello silenico, ma pare tradursi in una rispondenza diretta: allo stravolgimento del corpo corrisponde quello dell’intelletto, i cui prodotti sono fallaci e bizzarri come il tiro di una cerbottana storta; ne conseguono la constatazione del proprio scacco e la svalutazione della propria arte, insieme all’appello finale al destinatario. In realtà, il carattere comico-parodico del componimento, e insieme l’evidenza del divario enorme esistente tra mittente e destinatario, rivelano la natura tutt’altro che seria di questa chiusa: assurda sarebbe, se intesa letteralmente, la richiesta di difendere il proprio onore fatta da un artista della statura di Michelangelo a un personaggio minore e oscuro come Giovanni da Pistoia; l’indicazione sul giudizio «fallace e strano» funge dunque da suggerimento ermeneutico per il destinatario e per noi lettori, invitati a leggere il componimento in chiave ironica e paradossale, rovesciandone il messaggio apparente e capovolgendo la «confessione d’impotenza» e la connessa «richiesta d’aiuto» in una «affermazione di fede» di Michelangelo – sono parole di Masi – in sé e nella propria pittura.
Circa quarant’anni dopo, nel capitolo I’ sto rinchiuso come la midolla, Michelangelo torna a deformare comicamente la sua persona e ora anche la casa nella quale si rappresenta imprigionato, in totale solitudine – fatta eccezione per i ragni che riempiono delle loro tele il buio stanzino:
I’ sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua, pover e solo,
come spirto legato in un’ampolla,
e la mia scura tomba è picciol volo,
dov’è Aragne e mill’opre e lavoranti, 5
e fan di lor filando fusaiuolo. (vv. 1-6)
La dichiarazione patentemente falsa della propria povertà19 è qui funzionale all’adesione al topos della casa decrepita, particolarmente fortunato nella tradizione bernesca; ma tornano anche motivi burchielleschi, a partire dall’immagine del volo, che Masi riconduce al sonetto LXXVI del Burchiello «quando era in prigione», in cui si parla del buio della cella e di una colomba che scambia per il verso di un compagno i brontolii dello stomaco del poeta affamato: «e sbucò il capo e guardò giù la tomba, / poi prese un volo giù diritto a piombo / e volò infino a mezo e tornò a bomba», vv. 12-14. Mentre in un sonetto del Pistoia si trova l’immagine delle ragnatele (VIII, «Io vidi intrando in casa una mattina / per tutti i luoghi ordire e tesser tele; / attaccate al solar poi tante vele / che poche più ne van per la marina», vv. 1-4) cui segue quella delle pareti esterne della casa usate come pubblica latrina: «Qua non si può portar alcun sinestro; / v’è pel proprio bisogno corporale / per tutto dove vai, comodo destro. // Di fòra a’ viandanti è un orinale / che alla francese lo vestì il maestro / con mille straforetti e mille gale»20, vv. 9-14; come nel capitolo michelangiolesco, che la sviluppa nei vv. 7-15: «D’intorno a l’uscio ho mete di giganti, / che chi mangia uva o ha presa medicina / non vanno altrove a cacar tutti quanti. / I’ ho ’mparato a conoscer l’orina / e la cannella ond’esce, per quei fessi / che inanzi dì mi chiamon la mattina. / Gatti carogne, canterelli o cessi, / chi n’ha, per masserizia o men vïaggio / non vien a sucitarmi mai senz’essi».
Dal v. 16 la lente deformante si punta sul corpo in sfacelo del poeta, tenuto dalla tosse e dal freddo in bilico sul limitare della morte, il cui vagheggiamento, motivo topico della tradizione petrarchesca, viene rovesciato in chiave comica: l’anima non può liberarsi uscendo dal corpo come vorrebbe, perché persino il passaggio dell’aria dalla bocca è difficoltoso, e le rimarrebbe un’unica indecorosa via alternativa (vv. 16-21). L’autoritratto prosegue nella forma di un lamento iperbolico, sviluppato attraverso tre affermazioni paradossali, ai vv. 22-27:
Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io vivo e mangio a scotto.
La mia allegrezza è la maninconia, 25
e ’l mio riposo son questi disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
Delle tre asserzioni (da interpretare: “l’osteria in cui io vivo e mangio, a pagamento, è la morte”; “il massimo di allegrezza a cui posso arrivare è la malinconia”; “riposare per me significa trovarmi in questi [enormi] disagi”) la più famosa e memorabile, quella centrale, «la mia allegrezza è la maninconia», va dunque intesa non come un’adesione alla concezione della malinconia come stigma dell’uomo di genio o dell’artista saturnino, ma alla luce della forte saldatura che, fin dalla letteratura dei primi secoli, lega insieme universo malinconico e universo comico. Ancora la triplicazione presiede alla successiva sequenza di metafore comiche, in cui la parcellizzazione del corpo si traduce nella serie degli organi-contenitori e del loro sgradevole contenuto: «Io tengo un calabron in un orciuolo», v. 34 (forse per la voce divenuta sgradevole, o per il mal di testa); «in un sacco di cuoio ossa e capresti», v. 35 (ossa e cordame di nervi dentro un corpo-sacco); «tre pilole di pece in un bocciuolo», v. 36, con riferimento ai calcoli renali di cui Michelangelo soffrì alla fine degli anni Quaranta, cioè nel periodo in cui scrisse il capitolo. Ai vv. 37-42 l’autoritratto si compendia nell’immagine di un volto grottesco come quello di un mascherone, coi denti che ballano come i tasti di uno strumento, e nell’effetto d’insieme, che lo fa sembrare uno spaventapasseri (vv. 37-42):
Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
ch’ al moto lor la voce suoni e resti.
La faccia mia ha forma di spavento; 40
i panni da cacciar, senz’altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
La chiusa contiene, come già quella del sonetto a Giovanni da Pistoia, ma in forma iperbolica e con marcato abbassamento comico, la constatazione del totale svilimento cui si sono ridotti gli antichi ideali e la proclamazione della vanità dell’arte, nel contrasto tra un passato illustre e un presente meschino (vv. 46-55):
Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,
agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.
Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin come colui 50
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui
di tanta opinïon, mi reca a questo:
povero, vecchio e servo in forza altrui,
ch’i’ son disfatto s’i’ non muoio presto. 55
Un epilogo disperato, si direbbe: ma complicato dal carattere paradossale dell’ultimo verso, che unitamente all’uso parodico della citazione nel penultimo (qui da Petrarca, come prima da Dante, per i vv. 16-18 e 20), sembra ribadire la dimensione ambigua, sfuggente, esorbitante i dati di realtà, in cui Michelangelo colloca anche questo suo autoritratto distorto.
Il modo in cui Folengo deforma la propria immagine si concretizza invece nell’uso di ipostasi, figure che compaiono all’interno delle opere come maschere dell’autore, ma anche come personaggi, e che, al pari dei mostri compositi del Baldus, hanno una natura ibrida. Come ha scritto Silvia Longhi, «la duplicità, la commistione è un’idea che ossessiona il Folengo: la lingua stessa che usa è un connubio anomalo»21. Duplice è Merlin Cocai, l’autore-personaggio del Baldus, insieme mago-profeta e poeta ghiottone e beone22. Doppio, anzi ossimorico, è Limerno Pitocco, la figura dietro cui Folengo si cela nell’Orlandino23: Limerno, che è anagramma di Merlino, è apparentemente l’opposto del poeta macaronico, e infatti si presenta come un letterato raffinato e petrarcheggiante; ma insieme è detto anche «Pitocco», cioè mendicante (dunque un povero autentico o qualcuno che si spaccia come tale); nei frammenti di ritratto che Folengo dissemina nel poema, a prevalere in questo suo alter ego sono proprio i tratti bassi e buffoneschi – è affamato, malvestito, impiattolato, scrive versi dal carattere balordo e dalla tecnica approssimativa… La «malizia» con cui questo Limerno «fingesi “pitocco” e furfante per dar bastonate da cieco»24 sarà richiamata e recisamente condannata nel Dialogo de le tre etadi posto in apertura del Caos del Triperuno, il prosimetro pubblicato da Folengo un anno dopo l’Orlandino, nel 1527, nel momento in cui comincia a maturare l’idea di un rientro nell’ordine benedettino lasciato due anni prima. In quest’opera – lo dichiara il titolo – il tentativo di disciplinare il «Caos» informe, la «confusa mole e pegra»25 che invischia il poeta, porta non più a una duplicazione dell’io, ma a una sua triplicazione, nel tentativo di ricomporre poi il tre in uno: Triperuno, per l’appunto, è il nome del protagonista, che compie un percorso catartico e purgatoriale dal traviamento – o, meglio, da una successione di diversi traviamenti – all’illuminazione del Cristo-Sole e alla visione finale della Natura-alveare, immagine allegorica dell’armonia cosmica (che si riflette nel microcosmo della vita conventuale finalmente rappacificata)26.
Lo schema del tre impronta la struttura dell’opera, divisa in tre «selve» precedute da un Dialogo de le tre etadi in cui tre donne appunto di tre età diverse – la madre, la sorella e la nipote del poeta – propongono tre diverse chiavi di lettura. Subito dopo prendono la parola le tre maschere di Folengo: dapprima Merlino, che presenta le tre età dei tre personaggi, «infans et iuvenis virque», ognuno soggetto a un diverso ordine di valori («Is legis paret naturae, schismatis ille / rebus, evangelicus posterus imperio»), ma dietro cui si celano un unico corpo e un’unica anima; quindi Limerno, il quale rivela che «Merlino, Fùlica, Limerno / si calzian d’un Teofil il coturno»; infine l’asceta Fùlica – che prende il nome dalla «folaga» presente, anch’essa triplicata, nell’insegna familiare del poeta – che conferma: «totalmente sul ternario numero siamosi, per conveniente ragione, fundati». La didascalia accanto alla battuta di Fùlica illustra la programmatica pervasività del numero attraverso l’elenco: «Tre parole de titolo. Tre folenghe. Tre donne. Tre etadi. Tre fogge di parentado. Tre argomenti. Tre parti d’ogni argomento. Tre nomi. Tre selve. Tre allegorie»27.
Tre nomi, dunque; cui corrispondono tre età – Merlino è un uomo maturo, Limerno un giovane, Fùlica un vecchio – e insieme tre lingue – Merlino si esprime in latino macaronico, Limerno in un toscano petrarcheggiante, pronunciando anche un elogio della lingua di Petrarca e di Boccaccio nel suo dialogo-scontro con Merlino nella Selva seconda28, Fùlica in volgare, con la lingua e la sintassi farraginose dei teologi – e tre fisionomie: Merlino, il primo che Triperuno incontra, si presenta da subito come «lieto, grasso e bello»29, di una letizia corporea e materiale esemplata, come suggerisce la glossa marginale, sul modello di Epicuro. Il ritratto che prende forma nei passi successivi, per voce dello stesso Merlino («Ille ego qui quondam formaio plenus et ovis / quique, botirivoro stipans ventrone lasagnas, / arma valenthominis cantavi horrentia Baldi»)30, di Triperuno, della turba in preda al furor («trippiger ille Cocaius, / Ille […] cui panza pedes cascabat ad imos, / Rumpebatque uteri multa grassedine pellem»), è quello appunto del poeta ghiottone e beone, ben noto ai lettori del Baldus, che si fa maestro di Triperuno nell’arte del mangiare, del bere e del dormire. Apparentemente opposto è Limerno, fin dalla sua prima comparsa: Triperuno e Merlino, sulla riva di un fiume di latte dalle sponde di pane fresco, stanno abbuffandosi di lasagne e trastullandosi, quando vedono sopraggiungere «un damigello, d’aspetto […] molto gentile e saputo»31, che canta con ridicola affettazione soavi versi d’amore accompagnandosi con la cetra, sotto le fronde di un lauro. Fùlica si presenta con i tratti topici dell’eremita dai rigidi costumi: è scalzo, ha la barba lunga, ed è pallido, il che ci dice qualcosa anche a proposito del suo temperamento, come osserva Limerno:
Limerno Non mi meraviglio punto se, nel parlare, molto sète lungo e fastidioso;
e più di noi, che stiamovi quivi ad ascoltare.
Fùlica Perché son io così lungo e fastidioso?
Limerno La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicemi voi essere di flemma tutto ripieno.
Triperuno Un flemmatico è dunque molto verboso?
Limerno Sì, secondo li fisici nostri. Né solamente la flemma causa moltiloquio e nugacitade,
ma tutte l’altre operazioni del corpo rende più tarde e pegre; al contrario d’uno che collerico sia,
lo quale il più de le volte le cose comen-cia due fiate, non riescendogli bene la prima per l’ingordigia
solamente del soperchio desiderio.
Le tre maschere corrispondono dunque anche a tre diversi temperamenti: oltre al flemmatico Fùlica, indubbiamente sanguigno è Merlin Cocai, mentre Limerno si presenta come malinconico, anche se in maniera affettata, si direbbe per obbligo di conformarsi al topos del poeta innamorato e triste. I tre personaggi vivono in «tre molto differenti regioni»32: Merlino nella Carossa, cioè, ci spiega la glossa, la Crapula, sorta di paese di Cuccagna o Bengodi, con un paesaggio fatto di valli di maccheroni e lasagne, montagne di cacio e di lardo, fiumi di latte e laghi di falerno; Limerno nella Matotta, regno della Vanitade, che ha tutti i tratti del locus amoenus dei poeti, «vive fontane, frondosi lauri, mirti, faggi, abeti, frassini, olive, querze, e […] altri assai bellissimi legni»; Fùlica risiede nella regione desertica di Perissa, che è il suo contrario, essendo «tutta sassosa, rigida, secca, sterile ed arenosa»33: immagine della Superfluitade bersaglio della polemica antiteologica di Folengo.
Il modello ternario, così cerebralmente insistito in quest’opera folenghiana, va ricondotto innanzitutto al dogma trinitario, che nell’autore agisce sia in virtù della frequentazione diretta dei testi religiosi sia come memoria più largamente letteraria – con la Commedia dantesca in prima fila – ma anche come memoria iconografica: le rappresentazioni della Trinità (in cui tuttavia è rara la raffigurazione delle tre persone antropomorfe, o del corpo con tre volti) e del suo rovesciamento parodico, il Satana dantesco dalle tre facce; ma anche l’allegoria della Prudenza, con i suoi tre volti che incarnano l’unione, che questa Virtù sa attuare, di «buona memoria delle vedute cose, buona conoscenza delle presenti e buona provedenza delle future», per usare le parole di Dante nel Convivio (IV, xxvii, 4)34; e il motivo delle tre età dell’uomo, giovinezza, maturità e vecchiaia, che conosce un momento di grande fortuna nei primi decenni del Cinquecento, e particolarmente in area veneta (il Caos è stampato a Venezia); motivo a cui l’iconografia della Prudenza talvolta si sovrappone, come nel memorabile “triplo autoritratto” di Tiziano ora alla National Gallery. Il dipinto, noto come Allegoria della Prudenza, rappresenterebbe il vecchio Tiziano con il figlio Orazio (l’uomo maturo) e il nipote Marco (il giovane): si tratterebbe dunque di una sorta di autoritratto che si svolge nel tempo, attraverso le generazioni, e insieme di un emblema nel quale le tre teste di animali, lupo, leone e cane, associate ai tre volti e alle tre età, alluderebbero alla memoria del passato, all’intelligenza del presente e alla previsione del futuro. Come Tiziano, anche il Folengo del Caos moltiplica il suo autoritratto, scalandolo nel tempo. Entrambi, a distanza di qualche decennio, adottano lo schema ternario, sigillo solenne particolarmente adatto a un momento di bilancio: per il vecchio pittore, è quello che si snoda attraverso le generazioni e celebra la virtù da lui consegnata ai suoi eredi; per Folengo, nel momento di profonda crisi che si trova a fronteggiare sul discrimine dei 35 anni, la triplicazione dell’io serve a un bilancio assai meno pacifico delle sue vicende biografiche e intellettuali e delle sue esperienze letterarie, nell’ansiosa ricerca di quell’armonia che possa porre fine al caos e condurlo al di fuori di un «laberinto di cento migliara di errori»35.
NOTE
1. Meno convincente l’attributo di «eroicomico» con cui James Hall qualifica questa produzione nel capitolo quinto del suo volume L’autoritratto. Una storia culturale, Einaudi, Torino 2014, pp. 103-129. Per la definizione di «autoritratto comico» rimando a A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo, in A. Galli-C. Piccinini-M. Rossi (a cura di), Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, Atti del Convegno (Firenze, 7-8 novembre 2002), Olschki, Firenze 2007, pp. 117-136.
2. Lo notava Francesco Tateo, sottolineando la netta divaricazione tra il ritratto letterario – quello al centro degli studi di Federica Pich e Lina Bolzoni (F. Pich, Il ritratto letterario nel Cinquecento. Ipotesi e prospettive per una tipologia, in Il ritratto nell’Europa del Cinquecento, cit., pp. 137-168; L. Bolzoni, Poesia e ritratto nel Rinascimento, testi a cura di F. Pich, Laterza, Roma-Bari 2008; F. Pich, I poeti davanti al ritratto. Da Petrarca a Marino, Pacini Fazzi, Lucca 2010) – e l’autoritratto, quest’ultimo orientato verso «il travestimento, piuttosto che la ricerca di una ‘foggia’ conveniente, l’apologia e l’autoironia, la commiserazione piuttosto che l’elogio» (F. Tateo, Sul ritratto autobiografico, in G. Lazzi-P. Viti [a cura di], Immaginare l’autore. Il ritratto del letterato nella cultura umanistica, Atti del Convegno [Firenze, 26-27 marzo 1998], Polistampa, Firenze 2000, pp. 123-134: p. 123).
3. Le edizioni di riferimento sono: I sonetti del Burchiello, edizione critica della vulgata quattrocentesca cura di M. Zaccarello, Commissione per i testi di lingua, Bologna 2000, e, a cura dello stesso Zaccarello, l’edizione commentata I sonetti del Burchiello, Einaudi, Torino 2004; B. Bellincioni, Rime, riscontrate sui manoscritti, emendate e annotate da P. Fanfani, Romagnoli, Bologna 1876-1878 (e ristampa in facsimile, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1968); Rime edite ed inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, a cura di A. Cappelli e S. Ferrari, Francesco Vigo, Livorno 1884; D. Bramante, Sonetti e altri scritti, a cura di C. Vecce, Salerno Editrice, Roma 1995 (XVIII, Quelle mie calze che già vostre fûro; XIX, Le gambe mie vorìan cangiar la pelle; XX, «Perché se porta i bolzachini in piede?»; XXI, «Bramante, tu sei mo’ troppo scortese; XXII, Meser, i’ non so far tante frappate).
4. L’edizione di riferimento è quella della sezione dedicata al Berni e curata da Silvia Longhi in G. Gorni-M. Danzi-S. Longhi (a cura di), Poeti del Cinquecento, Ricciardi, Milano-Napoli 2001, pp. 625-890.
5. Cfr. S. Longhi, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Antenore, Padova 1983, e in particolare il capitolo IV, Il rovescio di Narciso, pp. 113-137.
6. Fin dagli anni di più intensa elaborazione della Gerusalemme liberata, Tasso si descrive consapevolmente come un melanconico. È soprattutto alle lettere che Tasso consegna questo suo autoritratto (ma va ricordato anche il passo del Messaggiero in cui riprende e sviluppa, in chiave autobiografica, il testo del Problema pseudoaristotelico): la concezione della malinconia varia a seconda delle lettere, dei periodi, degli interlocutori; a volte è più fisiologica, altre più spirituale, sia nei sintomi sia nelle cause; a volte è ricca di sovrapposizioni letterarie, altre è la diretta espressione degli stati dell’autore. All’interno della ricca bibliografia, segnalo in particolare B. Basile, Archeologia di un mito tassiano: il poeta malinconico, in «Lingua e stile», (1970), pp. 293-308; Id., Poeta Melancholicus. Tradizione classica e follia nell’ultimo Tasso, Pisa, Pacini 1984; A. Quondam, Il gentiluomo malinconico, in B. Frabotta (a cura di), Arcipelago malinconia. Scenari e parole dell’interiorità, Donzelli, Roma 2001, pp. 93-123; M. Calabritto, Tasso’s melancholy and its treatment: a patient’s uneasy relationship with medicine and Physicians, in Y. Haskell (a cura di), Diseases of the Imagination and Imaginary Disease in the Early Modern Period, Brepols, Turnhout 2012, pp. 201-227; A. Coppo, All’ombra di Malinconia. Il Tasso lungo la sua fama, Le Lettere, Torino 1997; F. Leonardi, Nel corpo di Tasso: tra malattia e malinconia, in M. Di Maro-M. Petriccione (a cura di), Il racconto della malattia, Loffredo, Napoli 2021, pp. 49-64.
7. Per l’autoritratto del Berni, leggibile nelle ottave aggiunte al suo rifacimento dell’Orlando innamorato cfr. S. Longhi, Lusus, cit., pp. 114-119, e A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo, cit., pp. 127-129; per quello di Cellini, C. Vecce, Cellini, le parole e le cose, in «Croniques italiennes», 4 (2009), pp. 1-12; C. Gibellini, Benvenuto Cellini: autoritratto di un collerico, in G. Capecchi-T. Marino-F. Vitelli (a cura di), Avventure, itinerari e viaggi letterari. Studi per Roberto Fedi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2018, pp. 159-170.
8. Sullo scorcio estremo del Settecento, Giacomo Casanova preciserà nel Prologo della sua autobiografia: «Ho avuto tutti e quattro i temperamenti: il flemmatico nell’infanzia, il sanguigno nella giovinezza, poi il bilioso, e infine il melanconico, che, a quel che pare, non mi abbandonerà più» (G. Casanova, Storia della mia vita, 1983, vol. I, p. 8). La persistenza della teoria degli umori anche nel secolo successivo è testimoniata per esempio dai fitti riferimenti al proprio temperamento, oscillante tra il collerico e malinconico, presenti nell’epistolario foscoliano. Cfr. C. Gibellini, L’opera di Foscolo, un autoa cura di P. Chiara e F. Roncoroni, Mondadori, Milano ritratto in movimento, introduzione a C. Gibellini, Ugo Foscolo, Le Monnier Università, Firenze 2012, pp. 1-30.
9. G. Cardano, Autobiografia, a cura di P. Franchetti, Einaudi, Torino 1945, paragrafo LII, pp. 202-203. Corsivi miei.
10. Scrive Vasari che «ritrasse Michelagnolo messer Tommaso [Cavalieri] in un cartone grande, di naturale, che né prima né poi di nessuno fece il ritratto, perché aboriva il fare somigliare il vivo, se non era d’infinita bellezza» (cito dall’edizione giuntina presente on-line tra le risorse della Fondazione Memofonte, creata da Paola Barocchi per l’elaborazione informatica delle fonti storico-artistiche: http://www.memofonte.it/home/ files/pdf/vasari_vite_giuntina.pdf). Cfr. P. Ragionieri (a cura di), Michelangelo tra Firenze e Roma, Mandragora, Firenze 2003, in particolare la prima sezione del catalogo, Ritratti di Michelangelo; O. Calabrese, Chiromanzia di Michelangelo, in A. Gentili-Ph. Morel-C. Cieri Via (a cura di), Il ritratto e la memoria. Materiali/2, Bulzoni, Roma 1994, pp. 241-247.
11. Cfr. C. De Tolnay, Michelangelo II. The Sistine Ceiling, Princeton University Press, Princeton 1949; F. La Cava, Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio finale. Dramma psicologico in un ritratto simbolico, Zanichelli, Bologna 1925; J.T. Paoletti, Michelangelo’s Mask, in «Art Bulletin», LXXIV (1992), pp. 423-440; G. Sorbello, Autoritratti in forma socratica. Le Rime di Michelangelo e la Vita di Condivi, in Gli scrittori d’Italia. Il patrimonio della tradizione letteraria come risorsa primaria, Atti del Congresso Adi (Napoli, 26-29 settembre 2007), accessibile dalla sezione «Pubblicazioni» del sito http://www.italianisti.it.
12. Cfr. in particolare il sonetto 21 della Silloge, Colui che fece, e non di cosa alcuna, vv. 5-8: «Onde ’l caso, la sorte, e la fortuna / in un momento nacquer di ciascuno, / e a me consegnaro il tempo bruno, / come a simil, nel parto e nella cuna». Rime e lettere di Michelangelo Buonarroti, a cura di A. Corsaro e G. Masi, Bompiani, Milano 2016, pp. 41-42; G. Sorbello, Autoritratti in forma socratica, cit.
13. Sull’intrusione di Michelangelo nella Vita del Condivi, anche in risposta alla biografia della prima edizione delle Vite del Vasari, si veda P. Barolsky, The metamorphoses of Michelangelo, in «Virginia Quarterly Review», LXVIII (1992), pp. 208-217; Id., Michelangelo’s nose. A myth and its maker, The Pennsylvania State University Press, University Park (Pennsylvania) 1997; G. Sorbello, Autoritratti in forma socratica, cit.
14. Si vedano la scheda del manoscritto curata da Paola Barocchi nel catalogo Michelangelo. Mostra di disegni, manoscritti e documenti, a cura di P. Barocchi, Olschki, Firenze 1964, pp. 88-89; e l’introduzione e il commento di Masi in Rime e lettere di Michelangelo Buonarroti, cit., pp. 257-259 e 1016-1018.
15. I cinque sonetti di Giovanni da Pistoia, conservati nel codice Magliabechiano, sono stati pubblicati da Karl Frey, con i numeri CLXVII-CLXXI (Die Dichtungen des Michelagniolo Buonarroti, Grote, Berlin 1897); Masi (Rime e lettere di Michelangelo Buonarroti, cit., pp. 257-258) ritiene possibile che il sonetto di Michelangelo risponda al caudato di Giovanni L’ali d’ogni pensieri Amor l’attacca, e che generi poi la controreplica Michelangelo mio, se l’esser teco, in cui il pistoiese si descrive talmente sfigurato dalla malattia «franciosa», cioè la sifilide, che potrebbe far da modello all’artista per le figure della Morte o di Megera.
16. Sulle testimonianze delle difficoltà incontrate da Michelangelo in un’arte “non sua”, rintracciabili nelle lettere e nella Vita di Condivi, cfr. A. Corsaro, Appunti sull’autoritratto comico fra Burchiello e Michelangelo, cit., pp. 124-125; e la lettera di Pietro Aretino a Girolamo Parabosco dell’ottobre 1549, in cui si legge: «[Michelangelo] si scusa in mentre se gli pone in ciel la capella, con affermare ch’è Iscultore e non Pittore. Nel sentirsi celebrare in le Statue di Giuliano de i Medici e di Lorenzo, crollando il capo, grida: “Io dipingo, e non intaglio”» (P. Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, Salerno Editrice, Roma 1997-2002, vol. V, p. 281).
17. Rime e lettere di Michelangelo Buonarroti, cit., p. 283. Il nome del Cammelli fu fatto a suo tempo da Girardi (E.N. Girardi, Studi su Michelangiolo scrittore, Olschki, Firenze 1974, pp. 123-124); nonostante le rime fossero inedite, esistono prove di una loro diffusione, in particolare a Bologna, alla fine del Quattrocento, negli anni in cui Michelangelo si trovò in quella città.
18. Rime edite ed inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, cit., p. 68.
19. Sulle ossessioni di povertà di Michelangelo, e sulla sua ricchezza reale, cfr. R. Hatfield, The Wealth of Michelangelo, Edizioni Storia e Letteratura, Roma 2000.
20. Rime edite ed inedite di Antonio Cammelli detto il Pistoia, cit., p. 101.
21. S. Longhi, Impossibilia e mostri del Baldus, in Ead., Forme di mostri. Creature fantastiche e corpi vulnerati da Ariosto a Giudici, Fiorini, Verona 2005, pp. 33-43.
22. Nel Baldus l’immagine di Merlin Cocai oscilla tra la rappresentazione del poeta macaronico (grasso, ghiotto, ubriaco) e quella dell’asceta, modellata sulle Vitae Patrum. Questa ambiguità sembra trovare conferma nei ritratti xilografici dell’autore che appaiono nelle due edizioni toscolana e cipadense delle Macaronee: nella “toscolana” (1521), che rappresenterebbe una fase «estremistica, di macaronico per così dire fiammeggiante», una delle 48 xilografie, quella a c. 34r, rappresenta «l’autore macaronico […] mentre, con il botazzus in mano, viene imboccato di macaroni dalle sue Muse»; nella “cipadense” (1534-35 o 1539), l’edizione che testimonia il ripensamento classicistico di Folengo, compare «il severo busto classicheggiante di un poeta laureato, con tanto di iscrizione Merl. Coc. f.»: cfr. M. Zaggia, Breve percorso attraverso le quattro redazioni delle Macaronee folenghiane, in G. Bernardi Perini-C. Marangoni (a cura di), Teofilo Folengo nel quinto centenario della nascita (1491–1991), Atti del Convegno (Mantova-Brescia-Padova, 26-29 settembre 1991), Olschki, Firenze 1993, pp. 85-101. Sull’onnipresenza nel Baldus dell’immagine del poeta cfr., negli stessi Atti, C. Segre, Baldus, la fantasia e l’espressionismo, pp. 21-31.
23. Si veda l’introduzione di Mario Chiesa all’edizione da lui curata: T. Folengo, Orlandino, Antenore, Padova 1991, specie le pp. XXII-XXVII.
24. Cito da T. Folengo, Caos del Triperuno, in T. Folengo, Opere italiane, a cura di U. Renda, Laterza, Bari 1911, vol. I, pp. 173-381 (questa prima cit. a p. 175), ma correggendo dove necessario con l’ausilio dell’edizione anastatica della stampa del 1527, realizzata a cura di Otello Fabris e Roberto Stringa per conto degli Amici di Merlin Cocai (Parma-Torrechiara 2010).
25. T. Folengo, Caos del Triperuno, cit., p. 183.
26. Cfr. R. Rinaldi, Le dialogue comme apocalypse. Le Caos del Triperuno de Teofilo Folengo, in E. Buron-P. Guérin-C. Lesage (a cura di), Les États du dialogue à l’âge de l’Humanisme, Presses Universitaires François Rabelais-Presses Universitaires de Rennes, Tours 2015, pp. 485-492; A. Daniele, La forma del ‘Chaos’, in Teofilo Folengo nel quinto centenario della nascita, cit., pp. 329-372; A. Daniele, Intorno al Chaos del Triperuno , in Id., Folengo e Ruzzante. Dodici studi sul plurilinguismo rinascimentale, Esedra, Padova 2013, pp. 47-78; A. Daniele, Ancora sul Chaos del Triperuno, ivi, pp. 79-97. di Teofilo Folengo
27. T. Folengo, Caos del Triperuno, cit., pp. 182-183.
28. Sulle dispute linguistiche tra Merlino e Limerno si vedano soprattutto, oltre ai contributi già segnalati di Antonio Daniele, M. Pozzi, Teofilo Folengo e le resistenze alla toscanizzazione letteraria, in Id., Lingua, cultura, società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Dell’Orso, Alessandria 1989, pp. 137-155; G. Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 147-168.
29. T. Folengo, Caos del Triperuno, cit., p. 245.
30. Ivi, p. 246.
31. Ivi, p. 262.
32. Ivi, p. 263.
33. Ibid.
34. Tra gli esempi più famosi di rappresentazioni della Prudenza con i tre volti, il tondo del pavimento del Duomo di Siena, realizzato all’inizio del Quattrocento, e l’affresco nella Sala picta del Luogo Pio Colleoni a Bergamo, databile agli anni Settanta del secolo.
35. Ivi, p. 310.